Buonasera ;)

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. -NihalShan-
     
    .

    User deleted


    Chiamami solo Nihal ;) grazie per le info!! (:
    Va bene anche Adobe reader come programma?? (:
     
    Top
    .
  2. Liliana M.
     
    .

    User deleted


    Ok Nihal :)
    Adobe reader serve a leggere i pdf,e se tu vuoi pubblicare in ebook ti occorre un programma in grado di covertire il tuo testo (scritto in word) in un epub, e poi un altro programma che ti consenta di editare l'epub.
    Comunque non farti spaventare dalla quantità di passaggi, e' fattibile anche per i meno esperti, io ho imparato tutto da sola consultando internet ^.^
     
    Top
    .
  3. -NihalShan-
     
    .

    User deleted


    Ahah allora sto tranquilla XD
     
    Top
    .
  4. Liliana M.
     
    .

    User deleted


    Ma certo! Comunque se hai bisogno chiedi pure, sarò felice di guidarti passo passo nei vari passaggi! ;)
     
    Top
    .
  5. -NihalShan-
     
    .

    User deleted


    Grazie mille!! ^^
     
    Top
    .
  6. •»Cuccìolà!×
     
    .

    User deleted


    Grazie mille delle nuove informazioni *-*
     
    Top
    .
  7. Anemon
     
    .

    User deleted


    En retard, Lil, mi presento e ti porgo il mio benvenuta fra noi! Io sono Anemon, Nonno_di_Forum, gran chiacchierone, curioso e ...ovviamente lettore accanito soprattutto di ciò che è horror/paranormal/fantasy/sf ed affine. Dato che sicuramente sei "esperta", ti cito subito alcuni nomi miei preferiti: Anne Rice, L.K. Hamilton, J. Kalogridis, le più "leggere" J.R. Ward e L. Adrian, Kim Harrison [per restare ai temi prettamente Urban Fantasy e/o paranormal/horror]; Colleen McCollough e il suo ciclo su Roma Antica; l'adoratissima Jacqueline Carey ed il ciclo su Terre d'Ange iniziato con lo splendido "IL DARDO E LA ROSA"; e mi fermo qui, per ora, tacendo i classici Stoker, Poe e Lovecraft ... Lieto di leggere qualcosa di più, su di te, qui ... E, fra qualche tempo, su carta, non appena troverò in libreria il tuo romanzo... O_______________O
     
    Top
    .
  8. Liliana M.
     
    .

    User deleted


    Ciao Anemon! Grazie per essere passato a darmi il benvenuto. Vedo che sei un vero amante del genere! Che mi dici di Cassandra Clare, Lauren Kate, Becca Fitzpatrick e Tara Hudson? A me piaciono molto ;)
    Se ti va di saperne ancora di più su di me fai una visita al mio sito ;)
    A presto!
    Lilly
     
    Top
    .
  9. Liliana M.
     
    .

    User deleted


    Buonasera! Volevo scusarmi per la lunga assenza, dovuta a impegni che mi hanno tenuta... impegnata per l'appunto.
    Vorrei farmi perdonare omaggiandovi con il primo capitolo del mio libro (che riporterò qui di seguito perchè per un motivo che non mi è molto chiaro non riesco ad aprire nessun'altra sezione, forse perchè mi sono assentata troppo a lungo) Perciò perdonatemi se questo non è il luogo adatto.

    PROLOGO

    Non posso crederci, ancora non mi rendo conto di essere finalmente arrivata al traguardo, anche se in effetti non si tratta di un vero e proprio traguardo. Per i miei genitori è la prima tappa importante della mia vita, ma per me il diploma non è altro che l’inizio. Non so ancora bene di cosa, ma qualcosa dentro di me mi fa sentire più viva che mai, come se in tutti questi anni fossi stata prigioniera, ostaggio di me stessa e delle aspettative che gli altri riponevano in me.
    Basta! E’ arrivato il momento di riscattarmi; è arrivato il momento di ascoltare le innumerevoli vocine all’interno della mia testa e cercare di soddisfarle una ad una, pur folli che siano le loro richieste. Voglio vivere ogni singolo istante della mia esistenza con una passione tale da travolgere tutto ciò che mi circonda.
    E’ arrivato il momento di andare incontro al mio destino!


    1.Mappamondo

    L’immagine più bella che potessi sperare di ammirare al mio risveglio quella mattina, era una fotografia firmata Flò, una compagna di classe, ex-compagna di classe ormai. La mia carissima amica, amante della fotografia, ricevette in regalo la sua prima macchina fotografica all’età di dieci anni e da allora non era passato giorno senza che ne utilizzasse una.
    Io e Flò ci siamo conosciute in prima superiore; entrambe avevamo preferito lasciar fare alla maggior parte dei nostri coetanei la scelta più ovvia: un istituto per la formazione aziendale che avrebbe sfornato tanti piccoli impiegati pronti per essere rinchiusi in grigi e tristi uffici, mentre noi, nonostante non fossimo ancora a conoscenza l’una dell’esistenza dell’altra, la pensavamo allo stesso identico modo: non eravamo fatte per una vita banale e sedentaria. No, noi volevamo l’avventura.
    Fu così che ci trovammo nella stessa classe dell’unico istituto turistico esistente nelle vicinanze del nostro paesello natale.
    Il primo anno eravamo come cane e gatto, non potevamo vederci senza litigare. Lei, una ragazzotta robusta dalla carnagione olivastra, desiderava girare il mondo lavorando come assistente di viaggio, mentre io desideravo girare il mondo e basta. Per divertirmi un po’ avevo soprannominato la professione che Flò voleva intraprendere con tutta se stessa “Brioche salata”, perché all’inizio vieni attirato dallo splendore di quei lussuosi e accattivanti villaggi a due passi dal mare, come se stessi pregustando la dolcezza di una soffice sfogliatina, insomma ti viene l’acquolina in bocca. Poi, però, non appena il primo ospite scontento ti si presenta imprecando perché nella sua stanza hanno dimenticato di lasciare il cioccolatino sul cuscino, vieni investito da una raffica di schiaffi che ti riporta dritto alla realtà, svelandoti che quello che credevi essere un dolcetto alla crema non è altro che un salatissimo boccone.
    Sarà stato per quella piccola diversità di opinione che ci divideva, oppure semplicemente perché essendo stata iscritta per errore al corso di tedesco al posto di quello di francese ero maldisposta con tutto il mondo, ma di fatto non ci andammo a genio per l’intero anno.
    Poi, un giorno, ci incontrammo per caso al ristorante cinese d’asporto non lontano dalla scuola; si potrebbe pensare che non ci fosse nulla di strano in un casuale incontro, a eccezione del fatto che entrambe avevamo fatto “sega”, “bigiato” le lezioni insomma, e tutto per una irrefrenabile voglia di involtini primavera. Da quel giorno, o meglio, da quel pranzo scoprimmo di avere molto altro in comune. Diventammo l’una l’ombra dell’altra e presto Flò cominciò a dimostrarmi tutto il suo affetto regalandomi splendide fotografie.
    Nella mia stanza, una tipica cameretta da teenager, c’era una parete quasi interamente ricoperta dai suoi capolavori; ce n’era davvero per tutti i gusti, la sua abilità spaziava dalle bellezze naturali: montagne, laghi, fiumi, scogliere; agli istanti rubati alle persone sconosciute, momenti casuali delle loro vite che, in un gioco di sfumature color seppia, apparivano unici e davvero speciali. Ma tra tanta bellezza, una in particolare suscitava in me un senso di beatitudine, perché riusciva a farmi sentire in pace con me stessa e con le forze astrali. L’obiettivo di Flò era riuscito a catturare il momento in cui i raggi del sole, tra le nuvole bianche e soffici come cotone, tracciano una scia luminosa, un fascio di luce che indisturbato attraversa il cielo per poi dissolversi nei respiri degli ignari passanti; una visione davvero rara da incontrare.
    La luce. Ogni giorno siamo circondati dalla luminosità che delle minuscole particelle ci donano, ma poterla vedere nitida, aprirsi un varco nella coltre di nubi, fa pensare che questa meraviglia voglia presentarsi di persona. Quest’immagine idilliaca era ciò che ai miei occhi sarebbe piaciuto vedere dopo un lungo sonno.
    Ahimè la realtà era ben diversa, il solo panorama che mi potesse offrire la mia finestra era la noiosa sfumatura rossiccia del muro della casa accanto, ma ormai non ci facevo più caso.
    Come tutte le mattine mi svegliai presto e anche se, dato che la scuola era finita, sarei potuta restare a letto un po’ di più, il mio orologio biologico sembrava essere peggio di uno svizzero.
    La prima cosa che solitamente facevo, appena il cervello si metteva in moto, era pensare a cosa avesse in serbo per me la giornata, nella speranza di aggrapparmi a qualcosa di interessante; un modo per affrontare con un po’ più di brio tutto il resto. Quella mattina, però, non mi veniva in mente nulla; di solito ero brava a vedere il bicchiere mezzo pieno, ma quel giorno... Poi ricordai. Se la memoria non mi stava ingannando, avrei dovuto ricevere un regalo dai miei genitori, una sorpresa per il buon esito degli esami.
    Altro che brio, l’eccitazione arrivò alle stelle e la curiosità iniziò a divorarmi. Sperai solo di non dover attendere troppo.
    Con un sorriso che quasi mi impediva di masticare e deglutire senza soffocare, feci colazione, ma persa com’ero nel mio mondo di pensieri, non mi accorsi nemmeno che la brioche alla marmellata era ancora fumante e l’ovvia conseguenza al fatto che la mia lingua e il mio palato non fossero d’amianto, mi fece tornare alla realtà in un attimo.
    Quando mia madre entrò in cucina le lacrime avevano appena cominciato a scivolare sulle mie guance ed io, in preda a un istinto di sopravvivenza, stavo cercando di placare le fiamme che divampavano nella mia bocca scolandomi l’intera bottiglia di latte freddo.
    Con la coda dell’occhio osservai lo sguardo, per niente sorpreso, di mia madre Carola, mentre si raccoglieva le lunghe ciocche di capelli color mogano in una pratica coda di cavallo. In quell’istante mi resi conto di quanto fosse bella e triste allo stesso tempo.
    Lei e mio padre Giorgio si erano conosciuti subito dopo il liceo, in occasione di un viaggio a Parigi organizzato da amici comuni, e da allora, complice la città degli innamorati, si erano giurati eterno amore. Erano passati quasi vent’anni da quella vacanza e le cose erano cambiate completamente.
    Giorgio, da giovane carino e dolce, si era evoluto in un uomo stempiato con la pancetta, e sebbene amasse ancora molto la mamma, la sua unica dimostrazione d’amore era prepararle un bicchiere di spremuta ogni mattina prima di andare al lavoro. Mentre la povera Carola, probabilmente, bevendo il suo aspro bicchiere di spremuta, pensava a come sarebbe potuta essere la sua vita se avesse ceduto il biglietto per Parigi a qualcun altro.
    Non credo che occuparsi di noi e della casa le dispiacesse. A sentire lei, io ero il suo “unico” grande amore, ma i suoi occhi verdi esprimevano un senso d’insoddisfazione angosciante, come se avesse perso una parte di sé che non avrebbe più potuto riavere.
    <mia!!! Ma dove hai la testa?>, sbottò mia madre, notando che ancora non avevo fatto ritorno dal mio mondo immaginario, <non ti sei accorta che erano appena sfornate?!>, precisò.
    Persa nell’ammirare la forza con cui mia madre affrontava un’esistenza che, forse, avrebbe preferito destinata a un’altra donna, non seppi cosa rispondere. Feci cenno col capo in modo che capisse che la stavo ascoltando e poi, senza troppi giri di parole, tirai in ballo l’argomento scottante della giornata.
    <ma... il mio regalo?>, ero stata talmente diretta che Carola ebbe bisogno di una manciata di secondi per riordinare le idee.
    <perché non lo chiedi a tuo padre? Dovrebbe averlo lui>.
    Ancora non aveva finito la frase, che avevo già lasciato la cucina per andare alla ricerca di Giorgio.
    Non fu difficile trovarlo; nei giorni in cui non lavorava era sufficiente guardare in salotto. Passava gran parte del suo tempo sulla sua poltrona in pelle nera, sfogliando riviste automobilistiche. Come suo padre prima di lui, era un appassionato (anche se il termine migliore sarebbe seguace) delle macchine Saab e se mai un giorno mi azzardassi a comprare un’auto di una marca differente, verrei sicuramente diseredata.
    Appena mi trovai davanti a lui notai subito un ghigno nascosto sotto i baffetti, che un tempo erano stati di un bel nero corvino, ma che ora erano pieni di striature grigiastre. Non mi guardava, il che mi fece supporre che la mia impazienza, alla quale era il solo a poter porre fine, era per lui una sorta di momento piacevole da prolungare il più possibile.
    Cominciai a tamburellare con la punta del piede sul pavimento, le braccia incrociate sul petto e una visibile smorfia di nervosismo sul volto spigoloso. I miei occhi, simili a due smeraldi, lo fissavano con un’intensità tale che avrei potuto ridurlo in cenere e persino i miei boccoli color miele sembravano essere meno dolci.
    Già mi stavo inoltrando nuovamente nel mio mondo, immaginando delle teste di serpente che prendevano vita dalle punte spezzate dei miei capelli, quando la voce baritonale del babbo aguzzino mi raggiunse come una saetta. <se cerchi il tuo regalo sappi che non è qui, dobbiamo uscire>.
    Con un’espressione davvero stupita iniziai a pensare a cosa poteva mai essere, ma avevo pochi indizi per concretizzare le mie teorie; necessitavo di più materiale sul quale lavorare.
    <e’ qui fuori?>, chiesi nella speranza di carpire nuove informazioni.
    <no, dobbiamo andare in centro>.
    La replica di mio padre escluse la possibilità di trovare una macchina con un grande fiocco rosso ad attendermi sul vialetto, ma apriva una quantità esagerata di possibili regali. A questo punto poteva essere qualsiasi cosa, perciò mi convinsi che fosse meglio rinunciare a indovinare.
    <ok, allora andiamo?>.
    Giorgio, in risposta, ripose la rivista e prese le chiavi della sua Saab Station Wagon grigia. In effetti più che una domanda la mia, sembrò essere un ordine, ma l’importante era che finalmente la giornata stava prendendo una piega interessante e di lì a poco, avrei ricevuto la mia sorpresa.

    Mentre a bocca aperta raggiungevamo la meta a me ignota, in macchina regnava il silenzio. Mio padre non era un gran chiacchierone, anzi, si teneva tutto dentro e nemmeno con la forza gli si poteva strappare un’emozione; era come uno scrigno la cui chiave era stata smarrita di proposito dal proprietario che, per maggiore sicurezza, aveva ben pensato di nasconderlo nelle profondità marine, dove sarebbe stato ancora più irraggiungibile.
    Certo, avrei potuto accendere la radio, ma il volume consentito in sua presenza era talmente basso che se mi fossi canticchiata le canzoni nella testa, le avrei sentite di sicuro meglio.
    Dopo aver battuto per più volte le stesse strade, forse nella speranza di depistarmi, oppure semplicemente per il gusto di guidare la sua adorata macchina, arrivammo a destinazione.
    Mentre ammiravo l’insegna a caratteri cubitali dell’agenzia di viaggi “Giramondo”, ancora non mi era ben chiaro cosa avessero in mente i miei genitori; certamente sarei partita per una località, ma le domande che nascevano a raffica nella mia testa non mi davano tregua.
    Sarei partita da sola? Sarei partita con loro? Con un’amica? Pensandoci bene, magari si erano segretamente messi d’accordo con la madre di Flò. Conoscendoli, non mi avrebbero mai lasciata partire da sola e indubbiamente sapevano che ormai non sarei più andata da nessuna parte con loro. Al solo ricordo degli ultimi viaggi passati a vergognarmi delle loro discussioni in pubblico, mi veniva la nausea.
    In preda alla curiosità, mi affrettai a entrare per prendere posto insieme a mio padre alla scrivania di una donna dall’aspetto non molto curato: i capelli neri erano arruffati, come se si fosse appena svegliata e la sua camicetta bianca sembrava che non avesse mai fatto la conoscenza di un ferro da stiro. Almeno in viso, si era degnata di mettere un velo di trucco, anche se senza sarebbe stata più carina. Di sicuro non si amava molto, perché se prima di uscire di casa avesse salutato la sua immagine riflessa nello specchio con un sorriso simile a quello che accolse il nostro arrivo, si sarebbe senz’ altro accorta che parte del rossetto color pesca si era trasferito sull’avorio dei suoi denti, non molto dritti.
    <buongiorno! Cosa posso fare per voi?>, ecco di nuovo il sorriso accomodante. Non riuscivo a togliere lo sguardo dalla macchia sui denti, magari avrei dovuto dirle qualcosa, per evitarle di fare la stessa figuraccia con le persone che avrebbe servito dopo di noi, ma le parole che pronunciò mio padre, distolsero i miei pensieri dalla bocca che mi stava di fronte.
    <voglio regalare un viaggio a mia figlia!>, quella frase risuonò come musica per le mie orecchie, ma ancora non riuscivo a capire se si trattasse di un viaggio tutto per me, oppure no.
    <e dove la vogliamo mandare di bello?>, forse non era bella, ma sembrava saperci fare con le persone.
    <mia, dove vorresti andare?>.
    <stai dicendo che mi regalate un viaggio tutto per me e che posso scegliere io la meta?>, il mio cuore, per la paura che battendo troppo forte avrebbe potuto coprire la voce di mio padre mentre rispondeva a una domanda di vitale importanza, si fermò per un attimo.
    <bé, tu proponi e poi noi valutiamo. Pensiamo, o meglio tua madre pensa, che fare un viaggio lontana dai legami affettivi, prima di prendere decisioni importanti riguardanti il futuro, sia necessario per capire al meglio i tuoi desideri. Io avrei preferito regalarti una Saab, magari di seconda o terza mano per iniziare, ma conosci Carola e se si impunta...>. Non aveva bisogno di finire la frase, avevo avuto molte dimostrazioni della determinazione di mia madre nel corso della vita, ed ero sempre più convinta che in casa fosse lei a portare i pantaloni, ma ora più che mai ne ero davvero felicissima.
    Solo mia madre avrebbe potuto pensare a una cosa del genere e sono più che convinta che abbia persuaso Giorgio manipolando la sua mente e facendogli credere che se avessi provato a stare per un po’ lontana da casa, mi sarei trovata a disagio e magari avrei rinunciato a viaggiare per lavoro.

    Ero ancora in estasi per la rivelazione che mi aveva appena travolta come un treno, quando di colpo qualcuno tirò il freno d’emergenza. Dovevo scegliere una meta? Ma come potevo riuscirci? Escludendo le vacanze estive che ogni anno trascorrevo con i miei in una splendida località balneare del Veneto, non ero mai stata da nessuna parte, anche se la smania di visitare ogni angolo del mondo non mi mancava di certo.
    Ma da dove cominciare? Come escludere tanti posti meravigliosi per tenerne in considerazione solo uno?
    Forse l’espressione di smarrimento che si materializzò sul mio volto fu così evidente, che la banconista dell’agenzia pensò bene di correre in mio aiuto. <che tipo di vacanza ti piacerebbe fare? Ami l’avventura o preferisci arrostire sotto il sole cocente di qualche paradiso tropicale? O magari un bel viaggio culturale?>, aveva centrato nel segno. Ovviamente se prima avessi deciso la tipologia del mio soggiorno, sarebbe stato senza dubbio più semplice individuare il luogo adatto a me... (ho detto se).
    <non saprei. Diciamo che, ecco, sono attirata un po’ da tutte le opzioni che mi ha elencato, scegliere mi risulta difficile>, forse non era proprio la risposta che si aspettava. Probabilmente immaginava che una ragazzetta come me non vedesse l’ora di fare baldoria sulle spiagge, affollate quasi più la notte che il giorno, e di sfoggiare un’abbronzatura dorata super invidiabile al ritorno, ma non era davvero il mio caso. Magari all’apparenza potevo sembrare una bambolina che pensa solo alle cose futili della vita: i pettegolezzi del liceo, i vestiti, le serate in discoteca e i ragazzi. In realtà mi sentivo piuttosto estranea a questo tipo di cose, che consideravo demenziali, e se mi avesse osservata meglio forse lo avrebbe notato anche lei. Non poteva essere una ragazza incline a seguire la moda, chi vestiva con jeans sbiaditi e una t-shirt con l’immagine di un puma (tutt’altro che docile); non che avessi bisogno di coprire le imperfezioni del mio corpo, anzi, a dire il vero ero fatta piuttosto bene: magra, altezza nella media (se fossi stata un centimetro in meno sarei stata bassa) e seno prosperoso (troppo prosperoso per i miei gusti). Non parliamo poi dell’acconciatura, la maggior parte delle volte non li asciugavo nemmeno i capelli, complice il fatto che i miei boccoli scendevano appena sotto le spalle con più naturalezza se non cercavo di domarli con il phon.
    Insomma, ero la classica ragazza “strana” della classe, quella che è socievole solo con pochi intimi (solo per il fatto che si sono fatti avanti loro) e che va controcorrente (agli occhi degli altri, in realtà cercavo di essere neutrale e di non farmi notare troppo).
    Strana o no, ci stavo mettendo troppo tempo, e il pensiero che mio padre potesse cambiare idea per non vedermi in difficoltà, fece smuovere dentro di me l’impulso di prendere in mano la situazione. In fondo era ciò che volevo no? Essere io stessa l’artefice del mio destino.
    Mi guardai intorno, in cerca di un segno credo, un barlume di speranza che sarei uscita da quel posto con il mio biglietto in mano. L’agenzia non era molto grande, contai solo tre tavoli e su ognuno di essi vi erano accatastate alcune decine di cartelle; ovunque guardassi c’erano poster e nomi di località stupende, ma nessuna attirava abbastanza la mia attenzione. Ero concentratissima, come se aspettassi di sentire una vocina sussurrare “ecco! E’ quello il posto giusto per te!”; poi, ad un tratto i miei occhi cessarono di cercare. Fu come una rivelazione. Nell’istante in cui vidi il banalissimo mappamondo appoggiato sulla scrivania alle mie spalle, capii cosa dovevo fare.
    Non esitai, senza dir nulla mi alzai come ipnotizzata e mi avvicinai all’oggetto dei miei desideri. Fu semplice come respirare, con una spontaneità allarmante poggiai la mia mano sulla superficie liscia di quel mondo in miniatura e con un colpo di polso lo feci roteare; sentivo addosso lo sguardo curioso e attonito di mio padre, ma lo ignorai, non volevo rovinare il mio tête-à-tête con il destino. Alzai il dito indice, come un cavaliere sfodera la spada pronto a sferrare il suo attacco mortale, chiusi gli occhi e con decisione schiacciai il polpastrello sulla palla colorata che girava senza sosta, arrestandone all’istante la rotazione.
    Ben attenta a non spostare il dito nemmeno di un millimetro, aprii gli occhi. Un senso di eccitazione misto alla paura mi pervase, facendomi venire la pelle d’oca. Ci stavo riuscendo! Quell’energia che scorreva libera dentro di me come elettricità era sicuramente sintomo del fatto che finalmente avevo iniziato a vivere sul serio.
    Che emozione travolgente!
    D’incanto l’ansia di aver scelto una località sperduta sulle montagne del Tibet o nel deserto del Sahara si dissolse; qualsiasi fosse stata la mia destinazione, ormai ero certa che fosse quella giusta, come se aspettasse il mio arrivo da secoli. L’adrenalina che pizzicava nelle mie vene era come un grido, tutto in me stava dicendo che avevo appena individuato la mia strada.
    Mi feci coraggio e dopo un respiro profondo, guardai le lettere che si nascondevano sotto la mia impronta. Ecco una “emme”, una “a”, una “elle”, una “i”: MALI!
    Sarei partita per l’Africa, il cuore del mondo.
    Le prime immagini che presero vita nella mia mente, erano, molto probabilmente, dei ricordi annebbiati di qualche documentario visto in TV, ma l’idea che mi sarei trovata immersa nella natura ad ammirare gli animali in libertà mi riempiva il cuore di gioia.
    <allora?>, il tono di mio padre sembrava piuttosto scocciato, <devo tirare a indovinare o mi dici dov’ è atterrato il tuo indice?>, mi chiedevo come avrebbe reagito.
    <vado in Mali paparino!>, cercai di addolcire la pillola usando un vezzeggiativo.
    Subito mi accorsi che il colorito di mio padre si era fatto più pallido del solito e dopo aver deglutito (l’amaro boccone), mi guardò con un’aria quasi implorante. <dai su tesoro, scherzi a parte, vieni qui a sederti vicino a me e scegliamo una meta in modo tradizionale... che è meglio>.
    Per non farlo agitare troppo lo accontentai e sedendomi, con un’eleganza che raramente sfoggiavo, mi rivolsi alla donna spettinata, che ancora non si era ripresa dallo stupore causato dalla singolare scena alla quale aveva appena assistito. <ecco, signorina, ho riflettuto sulla sua precedente domanda e la mia risposta è che mi piacerebbe molto fare un viaggio di tipo avventuroso, immerso nella natura... magari in Mali!>, di nuovo un sussulto da parte di mio padre.
    Non ne ero sicura, ma con la coda dell’occhio mi era sembrato di vederlo portarsi la mano sul cuore. Ero dispiaciuta della preoccupazione che la mia scelta stava provocando in Giorgio, ma la sua reazione sarebbe stata la medesima se la mia falange fosse precipitata su Volterra, quindi, tanto valeva restare fedele al mio destino!
    Forse convinto del fatto che, come con mia madre, non avrebbe avuto speranze in caso di scontro, si rassegnò all’idea che di lì a due giorni sarei partita per il continente nero, e iniziò a contrattare con la banconista, per definire i dettagli del viaggio che avrebbe cambiato ogni cosa.


    Spero vi sia piaciuto e che vi abbia invogliato a leggere il resto!
     
    Top
    .
  10. -NihalShan-
     
    .

    User deleted


    Mi è piaciuto tantissimo!! E' molto bello e scrivi davvero bene! Sì, mi hai proprio invogliata a leggere il resto xD
    Ah, mi è piaciuta molto la parte della brioche salata XD
     
    Top
    .
  11. •»Cuccìolà!×
     
    .

    User deleted


    CITAZIONE
    Buonasera! Volevo scusarmi per la lunga assenza, dovuta a impegni che mi hanno tenuta... impegnata per l'appunto.
    Vorrei farmi perdonare omaggiandovi con il primo capitolo del mio libro (che riporterò qui di seguito perchè per un motivo che non mi è molto chiaro non riesco ad aprire nessun'altra sezione, forse perchè mi sono assentata troppo a lungo) Perciò perdonatemi se questo non è il luogo adatto.

    Ciao carissimaaaaa, ben tornata! :D Non preoccuparti per l'assenza, sono molto lieta che tu sia ritornata appena hai trovato un pò di tempo. Per quanto riguarda quel problemino... o__O non so come mai...non riesci proprio ad aprire una nuova discussione? Prova qui... https://langolodellalettura.forumcommunity.net/?f=7889713 e fammi sapere, altrimenti continua qui, non c'è problema :)
    Ho letto il primo capitolo, e posso dirti che è stupendo! Mi hai davvero invogliata a leggere il seguito... che dici, ci farai l'onore di farci leggere anche il secondo capitolo? :P
     
    Top
    .
  12. Liliana M.
     
    .

    User deleted


    Grazie a entrambe! Adesso mi trovo in un luogo sperduto in mezzo alle montagne perciò la connessione va e viene, se volete leggere il secondo capitolo lo potete scaricare da amazon, sul mio sito trovate il link!
    Scusate se non ve lo incollo qui ma... la connessione è davvero precaria per aprire un'altra pagina internet ;) a presto!
     
    Top
    .
  13. Liliana M.
     
    .

    User deleted


    Alla faccia della connessione che mi fa i dispetti eccolo qui... il secondo capitolo, ma non chiedetemi di più, davvero non posso ;)

    2. Mali, viaggio a Bamako


    Continuavo a rigirarmi nel letto nella speranza che Morfeo tornasse a reclamare i miei sogni, ma le poche ore che mi separavano dalla partenza non erano d’aiuto. Pensavo che due giorni fossero lunghi da passare, invece...
    I preparativi erano stati più impegnativi di quanto pensassi e le ore parvero secondi; fortuna che Giorgio, preso dall’ansia che la parola Africa faceva scaturire in lui (ormai ogni parola che iniziasse con A lo faceva sobbalzare) aveva pensato quasi a tutto, a parte i vaccini che erano toccati a me. Fosse stato per lui, mi avrebbe fatto fare ogni tipo di iniezione possibile purché mi avesse tenuta al sicuro dalle malattie, ma dopo qualche trattativa e l’intervento di mia madre, ero riuscita a ridurre la lista a tre: febbre gialla, meningite meningococcica e malaria.
    Non mi documentai molto sul viaggio che mi attendeva, avevo preferito sapere solo il necessario, in modo che tutto il resto fosse una sorpresa; un po’ come quando assaggi una pietanza nuova e dopo pochi istanti ti ritrovi a boccheggiare in cerca di un bicchiere d’acqua (sbagliatissimo... solo il pane placa la potenza del peperoncino), se qualcuno ti avesse detto che era piccante magari non l’avresti nemmeno provata. Io non ero certo una facile da smuovere quando si fissava su qualcosa, ma non volevo rischiare di cambiare idea scoprendo cose spiacevoli sul Mali. Così, riposi nello zaino i depliant che Carola aveva acquistato per me, dopo minuti interminabili di ricerche nella libreria del paese, promettendole che li avrei letti in aereo (bugia!).
    Finalmente arrivò il momento di partire. Diedi un ultimo sguardo alla mia casetta bianca, come se dovessi andarmene per non tornare più. Ero consapevole che si trattava solo di una settimana, ma in questo tipo di circostanze di solito emergeva il mio lato malinconico e, mentre dal lunotto posteriore della macchina di mio padre guardavo allontanarsi sempre più l’abete che da sempre padroneggiava nel nostro giardino, fui colta da una morsa allo stomaco, come se dentro di me stesse nascendo la sensazione che, forse, non avrei fatto ritorno a casa.
    Dal finestrino osservavo la mia città, o meglio paese, ma la guardavo con occhi diversi. Non avevo mai notato che le panchine del viale del Santuario, fossero il ritrovo preferito dei vecchietti in cerca di un po’ d’ombra nel torrido caldo d’agosto, poverini. E la piazza nei pressi della chiesa... Quante serate in compagnia ho passato lì: tiravamo tardi con una birra in mano ai piedi del campanile che, la notte, emanava una luce artificiale blu cobalto. Ora però, popolata di gente che si affrettava a svolgere varie commissioni, mi sembrava un altro posto.
    Caravaggio. Troppo piccolo per essere considerato una città, ma troppo grande per definirlo un paese, un po’ come me, né donna né bambina, ma di sicuro con un’infinità di meraviglie da offrire.
    In fondo, ci si poteva trovare di tutto a Caravaggio, mancava solo il cinema. Ma ormai a cosa sarebbe servito il cinema, in una società in cui i film se li scaricano tutti da internet?
    A parte questo, sapeva soddisfare ogni esigenza, e forse in questo era più bravo di me.
    Fino ad ora non avevo mai pensato alla mia città natale con tanta dolcezza, di sicuro se non fosse per il fatto che stessi andando via, avrei continuato a passare di lì senza notare questi particolari.
    Per evitare di rattristarmi ulteriormente, chiusi gli occhi, liberai la mente e attesi l’arrivo in aeroporto.


    Se c’era una cosa che non sopportavo, erano proprio gli addii.
    Ovviamente, Giorgio volle mantenere una certa aria composta, anche se in fondo sapevo che mi avrebbe voluta stritolare in un abbraccio; cosa che, invece, fece mia madre, fregandosene del fatto che anch’io, come lei, avessi bisogno di respirare per sopravvivere.
    Malgrado il leggero dolore provocato dalla sua morsa, mi sentivo al sicuro fra le sue braccia; fin da piccola mi avevano sempre accolta nei momenti belli, ma anche nei momenti difficili: dopo un brutto sogno, dopo una litigata con Flò o magari dopo aver visto insieme un film dalla trama molto triste. Ora però, era decisamente un momento bello, almeno per me.
    Dopo mille raccomandazioni alle quali non feci altro che annuire e i molteplici “ti voglio bene!” singhiozzanti di Carola, mi affrettai a passare i controlli per raggiungere il gate del volo Milano MXP – Bamako BKO, che sembrava essere in orario; il decollo era previsto per le 10.30.
    Era la prima volta che prendevo l’aereo, ma stranamente non ero nervosa; probabilmente erano talmente tante le emozioni che provavo in quel momento, che la paura del primo volo si mimetizzava alla grande fra tutto il resto.
    Ed ecco che, proprio mentre cercavo di slegare la matassa di sentimenti che mi avvolgeva, non mi accorsi che si erano imbarcate tutte le persone che fino a poco tempo prima erano in attesa insieme a me; infatti non dovetti attendere molto per sentir risuonare in tutto l’aeroporto il mio nome: <la SIGNORA MIA LIONE E’ PREGATA DI RECARSI AL GATE NUMERO CINQUE>. Sentirmi definire “signora” mi fece rabbrividire: avevo solo diciotto anni. Con un’aria imbarazzata, per essere stata richiamata, mi alzai e raggiunsi la hostess tirata a lucido nella sua divisa Air France, che dopo un’occhiataccia di rimprovero, controllò la mia carta d’imbarco e mi fece cenno di affrettarmi.
    Con ancora il documento fra le mani superai la signorina e percorsi il lungo corridoio alle sue spalle, che collegava il gate direttamente all’aereo, così velocemente che quando mi ritrovai davanti allo stewart, anch’esso impeccabile, respiravo a malapena. La cosa non sembrò toccarlo e senza perdere altro tempo mi fece accomodare al mio posto, per poter dare il via alle procedure di decollo.
    La fortuna doveva essere dalla mia parte, o forse era solo merito di Giorgio, comunque mi era capitato uno dei quei posti belli larghi, in prima fila, senza nessuno in fianco; anche se sarebbe stato carino scambiare due parole con qualcuno, vista la durata del volo (dodici ore, di cui quattro da sprecare facendo scalo a Parigi). Non mi sarebbe dispiaciuto avere accanto un bel ragazzo che, magari, dopo un paio di chiacchiere di conoscenza, mi chiedesse il permesso di seguirmi nel tour che avevo programmato. Ma poi pensai che al posto dell’affascinante giovane, mi sarebbe anche potuto capitare uno di quei signori grassi che, non appena prendono posto, si impadroniscono del tuo bracciolo e crollando quasi istantaneamente in un sonno profondo danno il via alla “Cavalcata delle Valchirie”, tutta fatta con il naso ovviamente.
    Bé, vista l’orribile alternativa, mi sentii felice di passare un po’ di tempo in solitudine.
    Dopo aver osservato con curiosità la dimostrazione da parte dell’equipaggio delle procedure di sicurezza in caso di ammaraggio, iniziai a realizzare che i motori erano accesi. Sentivo la loro potenza riecheggiare tutta intorno a me, poi, all’improvviso ecco che il nervosismo, ben celato fino a poco prima, riemerge dal mio subconscio; come un pivello di nuoto in apnea che torna in superficie a riprendere fiato ormai giunto allo stremo delle forze.
    Fu il panico! Aggrappandomi con tutta la mia forza ai minuscoli braccioli del sedile, cercai di convergere la scarica di adrenalina verso di loro, ma fortunatamente non ci riuscii; altrimenti sarebbero quasi sicuramente esplosi.
    Ormai l’aereo era in posizione e il pilota stava accelerando a tutto gas prima di mollare definitivamente il freno. In un attimo, il panorama fuori dal finestrino iniziò a sfrecciare sotto il mio sguardo paralizzato e prima che potessi riprendere fiato, il rombo dell’asfalto sotto il carrello cigolante era stato sostituito da un sussurro ovattato, provocato dall’aria che s’infrangeva contro la fusoliera di ciò che mi era parso un missile.
    Felice che nessuno avesse assistito, respirai a fondo e pian piano riacquistai lucidità.
    Il volo fu abbastanza tranquillo, a causa di qualche turbolenza inaspettata.
    Per ingannare il tempo avevo usufruito delle cuffiette omaggio, grazie alle quali mi ero gustata un po’ di musica classica; non ne andavo pazza, ma la programmazione del film era prevista per la seconda parte del viaggio; anche se a dire il vero “The day after tomorrow” non mi sembrava molto indicato.
    L’atterraggio non fu terrificante come il decollo, il pilota era stato davvero molto delicato nel posare un tale colosso sulla pista di Charles de Gaulle, e l’applauso frastornante che scoppiò nella cabina passeggeri ne fu la testimonianza.
    Durante lo scalo non era consentito lasciare la sala d’attesa adibita per noi (fornita di bar e duty-free), per motivi burocratici credo, così cercai di far passare le ore che mi separavano dalla partenza per Bamako facendo uno spuntino, comprando un mini-dizionario italiano-francese, che mi sarebbe sicuramente stato utile in Mali, e leggendo il libro che mi ero portata per i tempi morti: “Cime tempestose”.
    Il decollo seguente fu meno traumatico. Passai quasi tutto il volo leggendo e mangiucchiando quello che osavano chiamare “cibo” (fortuna che avevo già cenato a Parigi).
    Dopo altre sei ore circa di nuvole che si susseguivano senza sosta e l’aumento del mio interesse per quel libro che mai avrei pensato potesse piacermi tanto, arrivammo finalmente a destinazione.
    Mentre tutti si accingevano ad alzarsi per recuperare i loro bagagli a mano stipati nelle cappelliere, io stiracchiai le gambe ormai intorpidite, e ascoltai la voce del capitano, resa quasi incomprensibile dall’altoparlante, mentre ringraziava per aver scelto Air France e che illustrava brevemente cosa ci attendeva allo sbarco, ovvero una popolazione che parlava solo il francese immersa in una temperatura di 35°C. Il caldo lo potevo anche sopportare, ma il francese... non lo potevo certo imparare in una settimana (fortuna che esistono i mini dizionari da viaggio!).
    Mentre osservavo gli altri passeggeri lasciare l’aereo, mi resi conto di essere lontanissima da casa, circondata da estranei che molto probabilmente non si accorgevano nemmeno della mia presenza. Per un attimo fui travolta da un senso di malessere, mi sentivo nuda e fragile. Senza la protezione delle persone che mi amavano fui sopraffatta dalla paura. Un po’ come quando si impara ad andare in bicicletta, una volta tolte le rotelle che ci sostengono, si ha un gran timore di cadere e di farsi male. A quel pensiero i miei ricordi tornarono immediatamente a quel lontano pomeriggio ventilato in cui, sul vialetto fuori casa, mio padre tolse la mano che, appoggiata al sellino della bici rossa, accompagnava la mia corsa verso un piccolo ma importante traguardo. Allora capii. Forse non erano al mio fianco, ma i miei genitori sarebbero rimasti dietro di me... a tifare per me. E la dolce sensazione che sprigionò quella certezza mi diede un pizzico di coraggio per proseguire.
    Quando misi il primo piede giù dalla scaletta, nonostante fossero le otto di sera (qui eravamo due ore indietro rispetto all’Italia), mi sentii avvolgere da una folata di caldo, forse dovuto all’asfalto infuocato oppure causato dallo sbalzo di temperatura, inevitabile dopo aver passato le ultime ore con l’aria condizionata al massimo.
    Gli occhi mi bruciavano per via del troppo calore; era quasi impossibile tenerli aperti e feci molta fatica a seguire le indicazioni di alcune figure, nere come il carbone con indosso un gilet arancio fosforescente, che mi indirizzavano alla zona del ritiro bagaglio.
    Con mio gran sollievo lo zaino da campeggio super attrezzato, preparato con l’aiuto di mia madre, non era stato spedito chissà dove, così, dopo averlo caricato in spalla mi diressi verso l’uscita dell’aeroporto piena di entusiasmo.
    Non avevo mai visto tanta gente accalcarsi in un’area così ristretta. Un sacco di omoni dalla pelle scura erano schierati come un plotone d’esecuzione in attesa dei condannati, noi poveri turisti, nella speranza di riuscire ad accaparrarsi clienti per ogni tipo di servizio: taxi, guida turistica, ristorazione e quant’ altro. Devo ammettere che in quel momento mi sentii sollevata pensando a uno dei compromessi stabiliti da Giorgio. Mio padre aveva insistito nel farmi alloggiare, almeno la prima notte, presso uno dei più lussuosi hotel di Bamako, il Radisson Blu Hotel; il che prevedeva il transfer dall’aeroporto.
    Mi guardai attorno e dopo pochi istanti riuscii a scorgere un cartello grigiastro in cui si leggeva la scritta “Mia Leoni”. Ovviamente, la possibilità che una ragazza con il mio stesso nome ma con un cognome leggermente diverso, potesse trovarsi lì, era inverosimile; perciò passai sopra all’errata posizione delle vocali e mi feci avanti.
    Accennai un lieve sorriso all’autista che si differenziava dagli altri per via dell’abbigliamento sobrio e per la targhetta dell’hotel appuntata sulla sua polo color avorio.
    Immersi nel chiasso prodotto dalla folla sempre più agitata, non riuscii a sentire una sola parola di ciò che quell’uomo mi disse; intuii che stesse parlando solo perché vidi le sue labbra muoversi. Ad ogni modo non avrei capito nulla, la sua lingua mi era sconosciuta ed io troppo esausta per cercare di dare inizio a una conversazione fatta di segni e gesti, come tra due mimi.
    Gli lasciai prendere il mio bagaglio, che sistemò accuratamente nel cofano della macchina, e salii dietro.
    Dall’auto nera che mi stava scortando non ebbi modo di vedere molto del paesaggio circostante, la strada che stavamo percorrendo era invasa da una miriade di persone che camminavano in ogni direzione, anzi, mi domandai come era possibile che ancora non avessimo investito nessuno.
    In fin dei conti consideravo Bamako solo la linea di partenza e la stanchezza aveva già cominciato a farsi sentire, quindi rimandai ogni tipo di osservazione dei dintorni al giorno dopo.

    Devo dire che mio padre non scherzava affatto quando diceva: “L’hotel che ti ho prenotato è il più bello di Bamako, solo il meglio per te!”; non potevo confrontarlo con gli altri, ma era davvero lussuoso e la convinzione che tanta bellezza fosse stata scelta di proposito da Giorgio, nel tentativo di farmi cambiare idea e decidere di passarci il resto della settimana, aumentava ad ogni particolare che attirasse la mia attenzione.
    La hall era molto elegante, tutti i dettagli erano finemente curati: i numerosi divani in tessuto, disposti in modo da creare diversi salottini, ricoprivano gran parte dell’enorme sala dove, in fondo, nella parte centrale, era situata la reception, composta da un lunghissimo bancone in legno pregiato dietro il quale si dividevano i vari compiti un paio di persone.
    Trascinando lo zaino, mi avvicinai per farmi dare la chiave della mia stanza.
    Una delle due receptionist mi sorrise dandomi il benvenuto in un italiano traballante; io ringraziai per la gentilezza e dopo aver fatto un paio di firme sul loro registro degli arrivi, afferrai la tessera magnetica che avrebbe aperto la porta della camera e mi diressi verso l’ascensore.
    Passai davanti a una vetrata che dava sull’ampio spiazzo posteriore, intravidi l’invitante piscina, ma ormai le mie gambe avevano inserito il pilota automatico per raggiungere il letto ed io non ero intenzionata a fermarle.
    La stanza che mi era stata assegnata, si trovava al terzo piano. Come tutte la camere d’albergo era pulita e in ordine, ma senza troppa personalità.
    E’ davvero singolare la sensazione che si prova entrando in una camera d’albergo. Migliaia di persone ci hanno dormito, mangiato, letto libri, litigato, fatto l’amore; eppure ogni volta che un nuovo ospite si presenta alla sua porta, lei si mostra vergine e immacolata, come se il passaggio di tutte quelle vite non l’avesse toccata affatto.
    Ah, se i muri potessero parlare. Chissà quali segreti nascondono.
    Fantasticando su chi fosse stato il possessore di quella tessera magnetica prima di me, fui attratta dalla prima cosa commestibile che mi si presentò davanti.
    Sulla scrivania trovai ad accogliermi un cesto di frutta che, dopo una doccia rilassante, divenne la mia cena.
    Con la pancia piena mi distesi sul materasso morbido come pan di spagna. Le lenzuola di seta accarezzavano la mia pelle donandole freschezza, ed estasiata dal loro profumo esotico, mi lasciai cullare dal silenzio della notte, in attesa che i sogni cominciassero ad allietare il riposo.
     
    Top
    .
  14. -NihalShan-
     
    .

    User deleted


    Bellissimo anche il secondo capitolo! Il personaggio di Mia inizia a piacermi sempre di più e chissà cosa succederà a Mali!!
     
    Top
    .
  15. Liliana M.
     
    .

    User deleted


    CITAZIONE (-NihalShan- @ 20/8/2012, 13:43) 
    Bellissimo anche il secondo capitolo! Il personaggio di Mia inizia a piacermi sempre di più e chissà cosa succederà a Mali!!

    Grazie!
    Bè, ti dico solo che il terzo capitolo s'intitola Diego :wub: e che non sarà l'unico maschietto a gironzolare intorno a Mia

    Per il resto... ti consiglio davvero di leggerlo ;)
     
    Top
    .
43 replies since 8/6/2012, 19:45   313 views
  Share  
.