Il tuo dolore, il suo volere.

Oneshot, originale. E' un po' violenta, vi avviso.

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    Il tuo dolore, il suo volere.

    Un dolore lancinante alla testa, il sangue si surriscalda, le membra si restringono.
    Sempre più forte, il dolore si amplifica, cresce, lo assale, lo riempie. Ogni singola particella duole, urla, geme, strilla, brucia.
    Le membra si restringono, ruotano, girano su se stesse, mentre la testa scoppia, si apre in due.
    Le mani ormai non servono più, si sta aprendo, si sta crepando.
    E continua a cercare di riunire le due parti, si stanno separando, non doveva succedere.
    Una mano si fa strada sulla sua pancia, una leggera carezza e subito dopo un dolore fortissimo. Le unghie gli strappano la carne, il sangue esce fuori, una mano si infila dentro di lui, dentro al suo squarcio, dentro al suo ventre, facendosi strada tra le sue membra, afferrandole, tirandole, strappandole.
    Un'altra mano sul suo collo gli blocca il respiro, gli urli, i gemiti. Le braccia non resistono, il sangue si blocca, il cuore cerca di pomparne altro. Risultati. Scarsi.
    “Cos’è questo dolore?” Una semplice domanda, gli occhi si chiudono, le mani si muovono impercettibilmente, sangue, sangue, sangue esce dalla sua bocca, dal suo stomaco, dalla sua testa.

    “Stai per morire, mio caro.” Una voce orrenda, pietrificante, sibilante gli arrivò contrò l’orecchio. Sussurrata, lenta, per aumentare il dolore. La mano sul suo ventre gira attorno alle membra, stringendole e strappandole. Un urlo soffocato esce dalla sua bocca.

    “Sono ancora in grado di urlare? Il mio cervello ragiona?” Altre domande. Nessuna risposta.
    La voce ha riiniziato la sua tortura. Lenta, malvagia.
    Lo squarcio diventa sempre più grande, la mano quasi gli perfora le ossa, si stanno spezzando, si sta spezzando. Sta cadendo.

    Altre mani tornano a sorreggerlo. Sente tutto, nota tutto. Non riesce a muoversi.
    “Quindi è questo l’inferno?” Altra domanda. Solo sussurri.

    Un unghia spalanca ancora di più lo strappo, graffiando la pelle, perforando la carne, distruggendola, facendola a brandelli. Gli rompe una gamba, qualcosa di troppo forte per lui, qualcosa amplifica il dolore. Altro sangue, altre ferite, altri tagli.
    Un dolore fulmineo colpisce la sua schiena.
    Una frusta. Troppo forte, troppo tagliente.
    La gamba viene aperta da nuove ferite, mentre la schiena viene percossa.

    Le mani lo lasciano, all’improvviso. Nessun dolore nuovo, solo sofferenze. Quelle vecchie. Quelle scadenti. Quelle che non si rimarginano.

    Il cuore aumenta il battito. Troppo sangue, troppo sangue.
    Cade a carponi per terra, gli occhi chiusi, la gola di nuovo libera.
    Altro sangue, altro schifo esce dalla sua bocca.
    Parole, parole incomprensibili.
    E poi dolore, dolore e altro dolore.

    “Dove mi trovo?” Il sangue, il sangue, il sangue. La sua testa è crepata, lo sente.
    “Sono stanco, basta domande.” Un’altra voce. Questa volta peggiore. Squillante e macabra. Lontana, troppo lontana, ma vicina. Ci godeva.

    Dolore, dolore, dolore e altro dolore.
    Sangue, sangue, sangue e altro sangue.
    Carne, ferite, lacrime, sangue, dolore.
    Nuvole. Nuvole bianche, nuvole nere, nuvole rosse.
    Bianche di purezza, nere di dolore, rosse di sangue.

    E risate, risate, urli.
    Troppi pensieri, troppi.
    Troppe voci, troppe.
    Le mani tornano sulla testa, raggomitolandosi su sé stesso.
    La stringe, forte, la tieni unita, blocca gli urli, blocca le voci.

    Un’altra unghia, un altro urlo. Una risata. Una risata di quelle che provengono dal cuore. Di quelle cattive, macabre, orride. Gli strappa l’occhio.
    Ora ne ha uno solo, ed è rosso, appannato dal sangue.
    Troppo dolore, troppe sofferenze.
    “Muoviti, stiamo aspettando te.” Questa voce è fredda, congelata. Sente il ghiaccio bloccargli il sangue. Ogni cosa si ferma, si congela, si raffredda.
    Niente più urla, niente più risate. Solo dolore.

    Apre l’occhio, l’unico che gli è rimasto, e, anche se sanguinante, vede.
    Vede il dolore. Non lo sente, non lo percepisce. Lo vede.
    Con gli occhi. Con la pelle. Con le orecchie.
    Perché si, lo vede.

    I suoi occhi, la sua bocca, i suoi denti.
    “Io li ricordo.” E poi sofferenze, sofferenze, e ancora sofferenze.
    “Non devi ricordarti di me.” Questo è un urlo, uno di quelli forti, che ti lacerano i timpani, ti arrivano potenti, il dolore rimbomba come se fossi in una stanza chiusa, in una grotta immensa.

    Da solo.
    Nel tuo dolore.
    Nel suo volere.

    Un calcio, una ginocchiata. Viene calpestato, sballottato, sbattuto.
    Il freddo del pavimento di ceramiche pregiate è un dolore.
    Il fuoco è un dolore.
    Fuoco, fuoco, fuoco.
    Nella testa, nelle mani, nelle gambe, nelle membra, negli occhi. Nella gola.
    Niente più urli, niente più sofferenze.

    “Freddo, il pavimento è freddo. Troppo freddo. Ma cos’è questo caldo? Da dove viene. Ho caldo. Questo è fuoco o gelo? E’ acqua fredda o olio bollente? Perché la pelle brucia, perché si ricompone.”
    E il dolore ritorna. E’ troppo sperare che non succeda. Ti prego, ti prego, ti prego. Fa che finisca preso.
    E come se non l’avesse pensato un bastone, troppo lungo, troppo appuntito. Troppo all’improvviso, troppo doloroso. Arriva. Nella carne. Affonda e la esplora. La spacca, la squarcia, la rovina. Dalla pancia alla schiena. Troppo dolore, troppe sofferenze.
    E ancora, e ancora, e ancora.
    Altro fuoco, altro legno, altro ghiaccio, altra acqua.
    E il corpo si alza, viene alzato, viene spinto, senza forze, troppo forte. Le ossa non reggono. Il peso è troppo. La gravità è troppo pesante. Un pianto, sangue. Lacrime di sangue.

    E basta. Nessun altro dolore. Qualcosa di soffice, qualcosa di fresco – non freddo, fresco -, qualcosa di dolce.
    Come pioggia d’estate si posa sulle sue ferite. Prima sull’occhio, poi sulle orecchio.
    La implora: “Continua, aiutami, ne ho bisogno.”
    E come quando sei nel deserto e cerchi acqua, e come quando sei nel ghiaccio e cerchi il calore, soffice come la seta, sempre più dolce, sempre meno doloroso, sempre più riunito.
    “Sempre insieme. Sempre.”

    Promesse mai mantenute, promesse infrante, troppo false. Troppo dolorose. Troppo false. Troppo dolorose.

    Erano labbra, erano dolci, erano amore.
    Erano promesse, erano dolci parole. Erano dichiarazioni.
    Erano proposte, erano sofferenze.
    Erano troppo per lui. Erano troppo piacere.

    E così le ferite vengono riparate, ricucite, tornano come prima, non più scoperte, non più sensibili.
    Solo, cicatrici.
    Cicatrici, cicatrici e cicatrici.

    “Ti ho amato, ti amo, ti amerò per sempre.” Queste parole gli rimbombano nella testa. E continuano, si ripetono.
    Un disco rotto, uno splendido disco rotto. Un dolcissimo disco, una dolcezza nel dolore.
    Parole incrociate, parole deviate dal dolore. Ma sincere. Troppo sincere per le sue orecchie.

    “Mi hai odiato, mi odi, mi odierai per sempre.”
    Ecco la verità. Doveva venire fuori. L’aveva fatto soffrire troppo. E un morso gli lacerò la pelle. Ancora, ancora e ancora.

    E così la sofferenza ricominciò. E ricomincia ancora. E ricomincerà per sempre.

    “Ora tu amerai il mio odio, e io odierò il tuo amore.”
     
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  2. •»Cuccìolà!×
     
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    Sìì, in effetto è violenta, ma a me piace! :P Anche perchè ci sono tante descrizioni, tanti aggettivi, complimenti
    In questo punto qui "Risultati. Scarsi." non è meglio Risultati: scarsi! ? :)
    Ma è finita o continua? :)
     
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1 replies since 22/11/2012, 17:12   31 views
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